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Per chi non è del luogo, trovarla, forse, richiede un po’ di impegno. Si sale per Colli del Tronto, fino alla parte alta del paese, e si arriva a Contrada La Rocca. Una volta arrivati non è facile neanche individuarla: una bella casa con un bellissimo giardino, ma che può essere tutto sommato una casa come le altre. Poi vedi il cartello, e capisci di essere arrivato alla cantina dei Vigneti Vallorani. E ne sei contento. La natura casalinga di questa azienda vinicola è evidente prima di tutto nella dimensione data a questa realtà, una dimensione da casa, appunto, che però ti fa subito pensare a qualcosa di genuino, di buono. Poco dopo il cancello si trova un edificio ancora più piccolo, a un solo piano: la sala degustazione.

È qui che incontriamo Rocco Vallorani, il giovane proprietario che, insieme all’ancor più giovane fratello Stefano, ha preso le redini della cantina paterna da pochi anni, orientandola al biologico. Rocco parla con gentilezza ma con decisione, come chi è appassionato del suo lavoro e conosce perfettamente l’argomento di cui sta parlando. L’attenzione per ogni singolo dettaglio, dall’etichetta delle bottiglie al legno delle botti, ci viene spiegata durante il giro della cantina. È quasi spontaneo iniziare a chiedergli della sua famiglia e del legame che essa ha da lungo tempo con il territorio in cui vive.

Qual è la storia dei Vigneti Vallorani? “I miei bisnonni, all’inizio del ‘900, lavoravano questo terreno a mezzadria, per il padrone. Quando mio nonno Livio si è sposato con mia nonna Filomena, il terreno è stato riscattato. Dopo di che hanno iniziato a produrre, nel ’63, vino e olio da vendere sfusi o in cisterne, e mio padre Giancarlo con loro. Così sono nati i Vigneti Vallorani. Io sono sempre stato appassionato di questo ambiente. Da piccoli, io e mio fratello aiutavamo sempre nella vendemmia. Poi ho frequentato l’istituto agrario ad Ascoli e mi sono iscritto all’università a Perugia, diventando enologo. In seguito mi sono mosso parecchio: ho lavorato a Montalcino, in Nuova Zelanda, in Francia, ad Asti e negli Stati Uniti. Nel frattempo, nel 2005 sono iniziati i lavori di ristrutturazione della cantina, che sono terminati nel 2010, quando sono ritornato”.

Il vino che producete è biologico. Com’è strutturata un’azienda che lavora nel biologico? E quant’è difficile portarla avanti rispetto alle altre? “Le strutture sono isolate termicamente. La cantina che abbiamo ricostruito, dove sono le botti a riposare, è stata poi sepolta con molta terra, in modo da ottenere la giusta temperatura per il vino in modo naturale. Otteniamo energia attraverso un impianto fotovoltaico, così, nel corso dell’anno, l’85% di quella che usiamo è la nostra. Sicuramente l’agricoltura biologica è più difficile di quella normale. I costi e i rischi sono nettamente maggiori. I prodotti con i quali lavoriamo la vigna sono rame e zolfo, e basta una pioggia, al momento sbagliato, per lavarli via. Le condizioni meteorologiche sono un grande rischio, Occorre quindi una cura maniacale. I costi sono maggiori: effettuiamo un maggior numero di trattamenti, ma con una minor quantità di prodotti”.

Come mai allora la scelta del biologico? “La scelta di produrre vino biologico l’ha fatta mio padre nel 2005. Il pensiero è stato principalmente il rispetto verso il consumatore, poi verso la nostra famiglia: il terreno che utilizziamo per la vigna lo usiamo anche per noi stessi, con altre colture. Vogliamo avere a che fare solo con prodotti sani. La quantità di solfiti che utilizziamo è al di sotto dei limiti massimi previsti per la certificazione biologica. L’agricoltura post-guerra ha fatto tanti danni, perché c’è stato un ricorso smisurato alla chimica. Si è ottenuto un boom di produzione ma di qualità pessima. Comunque non è detto che il vino del contadino, rispetto alle grandi aziende, sia per forza il più buono: dipende da com’è il contadino e dall’idea che ha dell’agricoltura. Da enologo, inoltre, posso dire che non tutti i vini biologici sono buoni, ce ne sono anche di pessimi. Ma almeno il consumatore viene sempre tutelato“.

Quali sono le fasi e le tecniche che usate per produrre vino biologico? “Sono attratto dalle tecniche antiche, ma mi piace unirle alle tecnologie moderne, sempre nel rispetto dei vari vitigni. Le nostre tecniche valorizzano il vitigno ma intervengono poco, sono poco invasive. Giochiamo molto con la temperatura per ottenere il meglio. Durante la vendemmia, raccogliamo l’uva nelle cassette, non nei carri, e l’uva arriva in cantina integra, in una ventina di minuti. Siamo quasi sempre in quindici a vendemmiare, non di più, per cui impieghiamo molto tempo per finire. La tecnica che usiamo è quella dell’affinamento sui lieviti. Ho voluto introdurre io una tale tecnica dopo averla studiata per la mia tesi di laurea. Per fare una cosa del genere, però, l’uva deve essere pulita, perfetta. Manteniamo con i lieviti il vino per dodici mesi, intervenendo ogni quindici giorni e stabilizzandolo così in modo naturale”.

Che vini producete? “Le nostre scelte sono un po’ controcorrente, non seguiamo molto le mode. I vini che produciamo vengono da vitigni autoctoni. Mi piace valorizzare le ricchezze del nostro territorio, e voglio avere a che fare con i nostri vini storici perché sono molto legato alla nostra storia. Produciamo circa 20.000 bottiglie l’anno. I nostri vini sono tutti eleganti; i bianchi sono freschi, piacevoli da bere. Produciamo il Rosso Piceno, chiamato Polisia, che fa l’affinamento in metallo e poi un anno in bottiglia; il Rosso Piceno Superiore, il Konè, che affina 14 mesi in barrique di rovere e poi 1 anno in bottiglia; infine il Falerio, l’Avora, un anno in acciaio e 8 mesi in bottiglia. In uscita c’è anche la Passerina, un vitigno “neutro”, non molto particolare, che noi abbiamo cercato di valorizzare attraverso la fermentazione di 16 mesi in legno, con l’affinamento sur lies, ossia sulla feccia formata dai lieviti. In questa annata abbiamo prodotto anche due riserve, che devono ancora uscire, e avranno il nome dei nostri nonni: un Sangiovese e un Montepulciano in purezza”.

Qui in cantina organizzate anche degli eventi culturali. Di che tipo? “Stando molto all’estero, ho visto che nelle cantine c’è molto movimento, a differenza che in Italia. A noi poi piacciono molto la musica e la poesia, e l’anno scorso abbiamo organizzato delle serate a tema con degustazione dei nostri vini. C’è stata una serata di lettura poetica di composizioni dell’antichità inerenti all’arte del vino, poi una serata con musica swing ed una con musica jazz. Abbiamo avuto un ottimo riscontro di pubblico, e così quest’anno abbiamo deciso di replicare. Giovedì 18 luglio si inizia con l’esibizione live di Dario Faini, e ad agosto organizzeremo altre serate“.

E i vostri clienti? Dove vendete i vostri prodotti? “Noi non ci occupiamo solo di vendere il vino. La nostra cantina è aperta a tutti per essere visitata, ma la maggior parte dei turisti che vengono sono stranieri, pochi italiani. All’estero c’è una cultura del vino diversa. Qui nell’ascolano non siamo molto considerati. Abbiamo invitato diversi ristoranti e locali della zona dove ci avrebbe fatto piacere vendere i nostri prodotti, ma non ci ha risposto nessuno, solo il Bistro’ di Ascoli Piceno. Anche se abbiamo ottime recensioni e i nostri vini ottengono degli ottimi riconoscimenti, qui nella zona si preferisce vendere i soliti vini delle solite aziende, e si dà molto spazio anche ai prodotti non del luogo. A San Benedetto è diverso, c’è un maggior interesse per delle scelte specifiche e di qualità. Collaboriamo con alcuni hotel della costa, dai quali partono dei gruppi di turisti che vengono a visitare la nostra cantina. Ogni anno viene anche un gruppo di russi. Con le mostre abbiamo portato i nostri prodotti in Belgio, in Olanda e negli Stati Uniti. Poi anche a Milano, a Roma e a Torino. Sono dell’idea che dobbiamo vendere il nostro territorio. Voglio far capire che i vini che abbiamo qui, nelle nostre zone, sono i migliori. Non dobbiamo farci concorrenza tra di noi, ma collaborare per il bene delle nostre terre”.

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