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Ita fac, mi Lucili: Vindica te tibi” scriveva, parecchi secoli fa, Seneca al suo allievo/amico Lucilio. Una sorta di slogan, tipico dello stile senecano, ad apertura dell’epistolario, che letteralmente significa “rivendica te a te stesso”, ovvero diventa padrone di te, delle tue azioni, del tuo tempo e dei tuoi pensieri. Adesso ci si pone davanti una situazione negativa, ma che possiamo trasformare in un’opportunità: il Coronavirus sta portando tanti mali, ci costringe in casa, ci obbliga a rinunciare a quello che amiamo, sta creando gravissimi danni economici. Essendo questa situazione, ad ogni modo, ineluttabile, contrastabile solo con l’eroico gesto dello stare in casa, si può fare una cosa, che noi moderni non siamo abituati a fare.

Scrive sempre Seneca: “Raccogli e conserva il tempo che fino ad ora ti veniva portato via, che ti veniva sottratto con l’inganno o che tu stesso disperdevi inavvertitamente“. Il tema del tempo è fondamentale nel sistema filosofico di Seneca, ispirato alla corrente dello stoicismo. Il tempo, del resto, è la cifra del nostro essere al mondo, del nostro esistere, quello che molti secoli dopo Heidegger, un filosofo esistenzialista avrebbe chiamato, in tedesco, Dasein, ovvero l’esser-ci. Non il mero essere, ma l’esistenza vera e propria, qui ed ora, in questa particolare porzione di tempo che il fato ci ha destinato.

Il tempo sembra non essere mai abbastanza, lo sappiamo bene noi uomini del XXI secolo. Seneca fa una triplice ripartizione: c’è una porzione del nostro tempo che ci viene strappata via, sottratta apertamente da altri; un’altra, ci viene tolta sempre da terzi ma in maniera subdola; un’altra ancora, siamo noi a disperderla, rendendoci colpevoli di buttare piccole porzioni della nostra vita al vento, senza discernere ciò che veramente ci farebbe bene, sarebbe adatto a noi e potrebbe aiutarci nel nostro processo di crescita personale. E la perdita per negligenza è la perdita peggiore.

Prosegue il filosofo latino: “Magna pars vitae elabitur male agentibus, maxime nihil agentibus, tota vita aliud agentibus” (“Gran parte della vita scorre via nel far male, nel non fare nulla, nel fare altro“). Seneca non è, come potrebbe sembrare ad una lettura superficiale, contro ogni forma di edonismo, ma avanza una verità suprema: l’uomo deve essere padrone del proprio tempo, soppesare le attività che svolge, non dimenticando mai di dare spazio a se stesso. Cosa che, forse, in questi giorni potremmo provare a fare. Essere padroni dell’oggi, per dipendere meno dal domani. Nella nostra società è difficile bandire la frenesia, il caos, ma dobbiamo assolutamente ricordare non solo che il tempo a nostra disposizione non è infinito, ma che non abbiamo modo di sapere quanto sarà, di quantificarlo. Per questo, allontanare persone superflue, situazioni inutili è fondamentale.

Un piccolo elogio dell’otium

Questi giorni, quindi, potremmo dedicarli all’otium. “Otium” è un termine latino, ma ha un’accezione totalmente diversa dal nostro “ozio”: indica un’astensione dall’attività, dalle occupazioni (attenzione, sia utili sia inutili!), una lontananza dalla vita della Res Publica. Insomma, il tempo dell’otium è il tempo della cura di sé, della coltivazione dei propri interessi e della propria saggezza, dell’introspezione, che passa inevitabilmente per la contemplazione e lo studio. E’ il padre della filosofia, della speculazione fine a se stessa che tanto manca nel mondo odierno.

Per otium si intendono tutte le attività non strettamente legate al profitto, tutte quelle azioni che permettono di arricchirsi e coltivare le proprie passioni: dalla lettura alla scrittura, dagli esercizi ginnici all’esercizio di un tipo di arte particolare, fino al giocare, ad esempio a scacchi, o suonare uno strumento musicale. Anticamente, questo privilegio era riservato solo ai ricchi e agli intellettuali. Nell’antica Roma, l’otium era contrapposto al negotium, ovvero mettersi a disposizione della collettività, lavorare,  immergersi nella vita politica o nella vita d’affari.

Gli intellettuali e i filosofi sia greci sia latini, da Socrate a Seneca, avevano capito che il non essere schiacciati dagli impegni e il poter permettersi una vita appartata fosse l’unica condizione che permetteva la speculazione filosofica, che il non avere vincoli con la società era l’unica condizione del pensiero libero. Ovviamente, nella vita di un uomo comune ciò non è possibile, ma l’otium può essere praticato ogni volta che ritagliamo un po’ di tempo per noi, per ascoltarci. Fosse anche un quarto d’ora al giorno.

La concezione alla base dell’otium cambia con il Cristianesimo: da virtù sostanziale diventa ozio, assume la connotazione negativa di pigrizia o accidia, quest’ultima tra l’altro peccato capitale. Una delle tante e macroscopiche contraddizioni della chiesa, che esaltava la vita condotta da asceti ed eremiti ma inculcava nel popolo l’idea che fatica e sofferenza fossero strade verso la virtù e la salvezza. Questa concezione tocca i suoi massimi livelli con il Protestantesimo e la sua esaltazione della vita attiva e del lavoro, la cui base è il concetto di predestinazione: chi aveva successo, soldi, era baciato dalla grazia del Signore. Ma nelle Fiandre del Seicento, l’otium era ancora tacitamente praticato, per lo meno dalle classi abbienti: si pensi a tanti pittori olandesi del periodo, Vermeer ad esempio, e ai loro quadri con personaggi assorti nella perfetta vita delle loro case; tra donne che cuciono, scene di musica, di scrittura e di letture.

Il nobile ozio, comunque, scompare sempre più, fino ad arrivare alla società odierna, che celebra ossessivamente il lavoro e la carriera come unica forma di realizzazione personale; può esserlo in parte, ma per essere uomini veri, completi moralmente, deve esserci dell’altro. La gratificazione personale non può arrivare solo dall’esterno.

Senza l’otium, del resto, non avremmo mai avuto le più belle opere d’arte, i grandi musicisti e le opere letterarie che hanno attraversato i millenni e che continuano ad emozionarci. Quindi, non pensiamo che questi giorni siano necessariamente una perdita di tempo: siamo chiusi in casa, molti non possono lavorare e, proprio per questo, cerchiamo di dare un senso al nostro tempo, alle giornate che, lentamente, passano. Per chi non ama le arti, non ama la lettura, non dipinge, non è appassionato di discipline praticabili facilmente a casa – lo yoga ad esempio -, ascolti musica, suoni uno strumento; chi non è attirato nemmeno da queste attività, potrebbe dedicarsi ad abbellire la propria abitazione, con qualcosa di bello e armonioso che non è mai superfluo, a curare il giardino, a passare il tempo con i propri cari (ma solo se ne ha voglia! Si tenga a mente, comunque, che anche queste persone non saranno eterne), con i propri animali domestici; oppure, impari ad usare meglio dei programmi sul computer, si dedichi allo studio di una lingua straniera; guardi un film che desiderava vedere da tempo.

Del resto, è sempre nel tempo sospeso, nel dormiveglia, in una passeggiata in montagna, sul bagnasciuga di una spiaggia deserta, quando si è assorti, lontani con la mente dalle preoccupazioni quotidiane e dagli impegni, che nascono le idee più folgoranti e visionarie, come Nietzsche ci ha insegnato. Non nella chiassosa routine dei giorni feriali.

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