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“Ma cosa sto facendo? Perché non la smetto con questa roba da adolescenti? Tra l’altro, non voglio rendere ancora più ricco l’ex ragazzotto che ha inventato questa diavoleria”. Così, con la coscienza riappacificata, resisto alla tentazione di aprire la mia pagina Facebook e torno ai fatti miei.

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Mark Zuckerberg

In passato mi ero iscritto, e poi cancellato, due volte. Non ci trovavo quello che mi interessava, non gradivo l’invadenza altrui, non vedevo vantaggi.
E mi aggiravo felice, tra decine di persone rimaste arpionate, come uno scampato durante un’epidemia, convinto di essere dotato di resistenza naturale.

Poi, mi sono riscritto per la terza volta. L’ho fatto per fini selezionati, determinato a vivere nascostamente e a non molestare nessuno.
Sì, vivere nascostamente. 
Su Facebook. 
Già…

È come cercare di non prendere l’influenza a gennaio: non esci, adotti tutte le precauzioni, ma poi basta il colpo di tosse di un tipo incrociato sul pianerottolo e sei fatto. 
Il virus, una volta entrato, licenzia quei pochi anticorpi che trova e si apre un ufficio nella tua testa; orario continuato.

Però ho capito. Ho capito Facebook. Cos’è questo social e come funziona.

Mi sono sottoposto a quest’esercizio di analisi per perdonarmi la leggerezza dei contatti veloci e lievi. L’ho fatto perché sono un musone dentro e il divertimento mi causa sensi di colpa. 
Tuttavia l’ho fatto anche perché ho a cuore la sorte del neurone, la cui specie è in estinzione, e del quale nessuno pare preoccuparsi.
Perciò cerco di salvaguardarne la perpetuazione, adottandone qualcuno a distanza; con un’idea o una riflessione, ogni tanto, spediti come che sia; nella speranza che qualcuno si prenda cura del mio.

Insomma, ecco il frutto della mia analisi.

Facebook è una droga.

L’essere cercati e il vedersi rappresentati danno una gratificazione che si inserisce nei circuiti del piacere, per la stessa via usata dalla coca o dall’eroina, inducendo l’approccio compulsivo. Dopo un po’ non ne puoi fare a meno; e, per la verità, nemmeno vuoi.
Vabbè, e allora? 
Niente, era per dire.

Facebook impone il suo linguaggio.

Cioè devi stare dentro un ritmo ed un lessico, se no fai la figura di quello che va alla festa di carnevale col vestito della prima comunione.

Facebook impone i suoi temi.

Postare il canino e il micio, oppure i dentini del pupo, va benissimo. Sono cool anche la pagnotta sfornata, la foto del compleanno (da non includere la torta col numero di candeline), la gita a Castel Nonsisadove, il fotomontaggio virale, la contumelia al politico. Al di là di questo, rischi la più disumana delle sorti: neanche un mi piace.

Facebook impone il suo umore.

Non si va ad un funerale col tric e trac e non si va ad una festa a parlare delle cambiali in scadenza. Facebook ha una sua etichetta; è un bazar di umori, dei quali alla fine prevale uno solo. C’è un animatore occulto, da qualche parte, che dirige il mood condiviso cui uno, senza accorgersene, si sintonizza. 
E casomai non gli andasse, può sempre tornare a lavorare.

Facebook impone i suoi rapporti.

Incappi nella pagina di un vecchio amico, dopo trent’anni. Con lui avevi spartito pane, donne, gioie e dolori, e cosa vi dite? “Uhe ciao, come stai?” “Bene, grazie, ci sentiamo”. 
Facebook cancella tempo e luogo e trasferisce tutto in un qui e in un’adesso senza evoluzione. Non fosse per i capelli bianchi nella foto diresti di esservi lasciati ieri.

Facebook è un incomparabile mezzano.

Il migliore sulla piazza. Fa incontrare persone illudendo che sia stato il caso. Ma il caso è un software che sniffa ogni pertugio e scova ogni latitante. E, per di più, combina quasi sempre.

Facebook inganna.

Ma anche no. Alla fine, ho ritrovato le persone cui volevo bene con uguale affetto, e ho ritrovato qualche stronzo così come l’avevo lasciato, mirabilmente conservato. 
Ed è bastata una battuta.

Insomma, dopo questo esame, mi resta la sensazione di aver tralasciato qualcosa di magico, che non si vede, non si capisce, e va bene così. 
Del resto, non è un problema. Ne ricavo piacere, qualche informazione e tanta simpatia. Perché cancellarmi di nuovo?

Oddio, talvolta mi sveglio di notte e mi chiedo se qualcuno mi ha scritto qualcosa. 
Forse un sintomo di astinenza mal gestito.

Col mio analista ci stiamo lavorando.

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