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Nei due libri “Un contadino rivestito” e “Il sabato s’andava a fare l’amore”, entambi editi da Lìbrati, Fernando Galiè ci parla di mondi scomparsi, intraducibili con linguaggi e forme moderni. Attraverso l’autobiografia (Il contadino rivestito) e il racconto breve (Il sabato s’andava a far l’amore) l’autore ci conduce alle origini della nostra Storia, quella di un’Italia stremata dalla guerra, che fa i conti con una modernità imposta dalla logica del progresso. Se nel primo libro viene utilizzato il racconto di sé per preservare e tramandare un’esperienza universalizzata a memoria collettiva, in “Il sabato s’andava a fare l’amore” vengono riprese alcune direttrici, su cui era stata articolata la ricostruzione del proprio vissuto personale, per proporre ai lettori riflessioni incoative su “ciò che siamo stati”.

LA RECENSIONE – Un tessuto narrativo fervido sostiene un linguaggio semplice ma intransigente nei confronti del cambiamento sociale tempestivo e traumatico. Galiè si interroga sul bagaglio di umanità che abbiamo abbandonato per strada, rintraccia nella sua memoria la quotidianità fatta di rituali naturali e disconnessi dalla logica del potere, con uno stilema che procede attraverso la focalizzazione di tradizioni e usi della realtà contadina. Un tuffo nel passato che parla a tutti, per non dimenticare.

Partirei da “Un contadino rivestito”. Lei ha scelto l’autobiografia per narrare un mondo dimenticato dove affondano le nostre origini. Perché ha sentito l’esigenza di raccontarsi?
Potrei dire “per caso”. Era un’estate caldissima e, siccome vivo in campagna, e ora che ho lasciato l’insegnamento ci lavoro, ero costretto a stare dentro casa nelle ore più calde, così ho cominciato a scrivere, senza uno schema prefissato. In realtà la tentazione di raccontare i fatti più significativi della mia vita la sentivo da tempo, anche se non avevo avuto mai il coraggio di cominciare. Penso, comunque, che ognuno di noi abbia questa voglia di raccontare le proprie esperienze, gli anziani forse ancor più dei giovani. E dovrebbero farlo, perché solo col racconto si trasmette agli altri il passato di una generazione. Solo che prima il racconto era orale, all’interno del gruppo sociale in cui operavi. Oggi che viviamo tutti separati e soli, lo si può fare solamente scrivendo e questo è più complicato. È anche un modo per commentare la realtà che ci circonda e che spesso non ci piace.

La sua è un’autobiografia insolita. Si concentra sulla rievocazione di immagini, eventi di vita significativi, ritratti di uomini e donne, viaggi, tradizioni. Mi sembra che il filo-conduttore della narrazione sia la nostalgia di qualcosa che non tornerà più. È questa l’interpretazione giusta?
Certo non voleva essere un’autobiografia nel senso letterario. A me, come a tanti altri che hanno vissuto una vita “normale”, senza grandi eventi, parlare di sé non sembra avere molto senso, o almeno, non interessare nessuno. La mia idea era di rappresentare un’epoca, la mia, vista dalla mia piccola prospettiva e basata sulle piccole esperienze di vita, comuni a migliaia di esseri che non si sono sentiti mai degli eroi e non hanno mai guadagnato le prime pagine dei giornali.

Non le nascondo che mi sono sentita vicina alla sua esperienza di vita perché ho riscontrato alcune similitudini tra di noi, a partire dal Liceo Scientifico “A. Orsini”. Con una differenza. Mi sento meno libera di lei perché nel mondo attuale possiamo avere tutto a livello di bisogni primari, ma a noi giovani trentenni non è consentito sognare, costruire con speranza un futuro migliore come ha potuto fare la generazione a cui lei appartiene. Eravate veramente più liberi di noi e qual è la differenza tra le due generazioni?
È difficile rispondere perché quando si parla di libertà il campo si fa minato. Comunque, non credo che eravamo più liberi, cioè meno condizionati dei giovani di oggi. Anzi si potrebbe dire il contrario. Noi, da giovani, eravamo molto più limitati nelle nostre scelte dalla famiglia, che imponeva orari, impegni, doveri, promesse. Inoltre le ristrettezze economiche spesso ci impedivano, per esempio, di partire per un viaggio. Le convenzioni sociali non consentivano di avere una ragazza senza impegnarsi in qualche modo con la sua famiglia. C’era poi il condizionamento della Chiesa che interveniva pesantemente nei rapporti interpersonali. C’era la scuola, dove l’insegnante aveva sempre ragione e, per i giovani, non c’era modo di far valere i propri diritti. Questi forse sono stati i motivi che ci hanno spinto a lottare per il cambiamento e quindi a sognare una società più giusta e abolire certi privilegi dei potenti. Ma le ingiustizie sociali e i motivi per impegnarsi per una vita migliore non mancano certo nella società di oggi. Si tratta solo di volerlo fare.

In “Il sabato s’andava a fare l’amore” riprende alcuni argomenti affrontati nel libro precedente attraverso varie riflessioni proposte in racconti brevi. Il tema predominante è la vita contadina e il mondo agricolo dell’immediato dopoguerra. Qual è l’aspetto che più rimpiange di quella realtà?
In realtà non si tratta tanto di rimpianto. Le condizioni di vita dei contadini nel dopoguerra erano durissime e, quindi, nessuno può desiderare di tornare indietro. Però in Italia, in particolare, il passaggio da una società agricola a una industriale è stato troppo veloce e traumatico. Tutti i valori e le esperienze di vita dei nostri padri sono stati cancellati in nome di una modernità che faceva intravedere un futuro glorioso. Questo è stato il grande errore perché sentimenti come la solidarietà, l’onestà, il senso dell’onore, il rispetto per le cose e le persone, la pazienza, la sopportazione, la frugalità non sono mode passeggere ma principi su cui si deve basare una società in qualsiasi tempo. Avremmo evitato o ridotto l’impatto nefasto di una società consumistica, dell’usa e getta, che in meno di mezzo secolo ha travolto i rapporti tra le persone e ha distrutto metà delle risorse del pianeta.

Lei ha il merito di evocare colori, suoni, profumi di un’epoca passata. La vita attuale appare più complessa e ossessiva di allora. La solidarietà, la natura, il valore del tempo e della riflessione, sembra che non sappiamo più cosa siano. Esiste un modo per recuperare tutto ciò?
Debbo dire di sì, almeno lo spero. Cominciano a esserci segnali che danno qualche speranza. Non so se è conseguenza della crisi economica attuale, ma sembra che sempre più persone riscoprano la voglia di andare a fare una camminata in montagna invece di affollarsi sulle spiagge rumorose e costose. Si comincia a prendere la bici o i mezzi pubblici per gli spostamenti in città. Tanta gente sembra aver capito che la TV ti isola e ti ipnotizza e ha riscoperto il piacere di incontrarsi e di parlare. Molte famiglie che vivevano negli enormi condomini, se possono, scelgono di abitare in piccoli centri urbani dove è possibile avere relazioni umane e i figli possono ancora giocare sotto casa. Insomma, si tratta solo di voler tornare a essere persone e non solo oggetti di consumo.