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Una sala cinematografica. Spettatori passivi e immobili, contraltare alle immagini in movimento che scorrono sullo schermo. Poi una stanza, in cui un uomo senza sonno si alza, e attraverso una porta nascosta nel muro si introduce silenzioso nella sala, ad osservare l’immobilità statuaria del pubblico. Si apre così Holy Motors di Leos Carax, da molti considerato il vincitore morale di Cannes 2012. Fin dall’inizio ci si rende conto di avere a che fare con qualcosa di anticonvenzionale, che necessita probabilmente di una visione laterale. Il film, dopo il prologo che può essere interpretato come una dichiarazione d’intenti, segue le 24 ore della giornata di Monsieur Oscar (Denis Lavant), che all’interno della Limousine in cui si sposta per le strade di Parigi dà vita ai personaggi con cui affronterà i nove appuntamenti annunciati dall’autista Céline (Edith Scob).

Oscar passa con abile maestria dai panni di una vecchia mendicante a quelli di un “freak” delle fogne, da attore di motion capture a padre di famiglia, attraversando personaggi e generi cinematografici, con eccellente capacità di immedesimazione ma con lo sguardo stanco della ricerca di motivazioni. “Cosa vi spinge a continuare, Monsieur Oscar?” – “Ciò che mi ha fatto iniziare: la bellezza del gesto”. In questa confidenza con Michel Piccoli, Oscar palesa il rapporto profondo del film con il significato dell’opera filmica.

La bellezza è negli occhi di chi guarda, ma se chi dovrebbe guardare ha gli occhi chiusi, non esiste bellezza. Ogni personaggio è una storia, ogni storia è relazione, e ogni relazione cerca insistentemente confronto, pathos, empatia. Il film nasconde un messaggio nel percorso della settima arte, dai rudimentali esordi all’avvento della tecnologia, dalla meraviglia dei primi spettatori alla passività viziata delle maschere inespressive dei pubblici odierni.

Holy Motors è sicuramente un film riuscito: il messaggio arriva silenziosamente, attraverso passaggi chiari e input più sottili. Spinge a una seconda visione, a una terza, stimola lo spettatore a interrogare e a interrogarsi. Il finale non dà una sola risposta, ed è forse qui che il film ha la sublimazione del suo significato: se la bellezza è negli occhi di chi guarda, negli stessi occhi risiede la speranza in un nuovo inizio o il bisogno di riscoprire le proprie radici.

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