Articolo
Testo articolo principale

L’Appennino perduto è un’area composta prevalentemente da boschi, alture modeste (la cima più alta è quella del Monte Ceresa, con i suoi 1494 m), acque, costoni d’arenaria, strade brecciate e borghi semi abbandonati o totalmente disabitati, specie dopo il dramma del sisma del 2016.

Nonostante molti di loro siano ormai paesi fantasma, il fascino sprigionato da questi luoghi è difficilmente descrivibile, forse perché, lanciati a razzo nella frenesia del nuovo millennio, non riusciamo a cogliere l’aura poetica di posti che evocano un passato vicino cronologicamente ma idealmente lontano millenni, sublimando uno stile di vita che, a tratti, aveva ben poco di poetico.

Tuttavia, la decadenza ha un’aura particolare, e pensare che siano esistiti luoghi in cui i nostri nonni o bis-nonni vivevano a contatto con la natura, nutrendosi dei frutti della terra e del bestiame fa sognare. Fa fantasticare sulle case abbandonate, sulle vite di chi le ha abitate, sulle loro storie, sui segni che hanno lasciato e su quelli che sono andati irrimediabilmente perduti. Fa pensare all’incontrarsi dei giovani la domenica in chiesa, agli sguardi timidi che dovevano scambiarsi mentre si affacciavano sul palcoscenico della vita; alle corse, ai giochi, alla semplicità.

 

 

Appennino perduto, i borghi principali

Tra i paesini che possiamo incontrare in questa zona figurano Agore, Piandelloro, Venamartello, Forcella, Tallacano, Poggio Rocchetta e Rocchetta (quest’ultima totalmente abbandonata anche se pare sia in corso un progetto di riqualificazione in chiave turistica). Tali agglomerati sono andati incontro al fenomeno dello spopolamento dopo il boom economico del secolo scorso, che ha portato gli abitanti ad abbandonare la faticosa vita rurale in nome delle comodità cittadine.

Peculiarità di questo tratto dell’Appennino è la folta presenza di fabbricati in pietra addossati alle numerose grotte naturali di arenaria, come la Grotta del Petrienno. Sono strutture che non fungevano solamente da magazzino o da ricovero per il bestiame, ma spesso da vera e propria abitazione, tanto che le case di Piandelloro sono quasi tutte di epoca fascista, fatte costruire per sottrarre la gente a condizioni di vita ben poco agevoli e salutari. Altri casolari poggiano sulle pareti di arenaria, come quelli di Rocchetta, paese che si sviluppava in verticale per assecondare l’andamento delle rocce, al centro del quale si erge un antico palazzo signorile, ormai diroccato, ma che emana ancora un senso di austerità e soggezione.

 

 

I due abitati più grandi tra quelli elencati sono Venamartello e Tallacano, entrambi danneggiati dal terremoto. Tallacano è nota soprattutto per la produzione di legna da ardere e di castagne nel periodo autunnale; sorge su un dente di roccia sporgente (dove è situtata la chiesa, punto nevralgico nei paesi dei tempi che furono) e ha moltissime case databili intorno al XVI secolo, con particolati architravi con disegni – soprattutto religiosi – incisi. Tra gli architravi che si trovano in questi antichi borghi, con gigli, ruote, spighe e fiori della vita, Tallacano ne presenta uno particolare: parlando con uno dei pochi abitanti del paese (prima del sisma), è emerso che si crede che in quella casa, in tempi remoti, vivesse una strega. Al centro dell’architrave troneggia un giglio, nell’iconografia sacra simbolo di purezza e per questo spesso associato alla Vergine; sulla destra una lepre viene rincorsa da un lupo, mentre sulla sinistra troviamo una specie di mostro infernale. Le lettere VIVA SEP. MA dovrebbero significare “Viva Sempre Maria”. La lepre, nella simbologia, è animale lunare sacro a Venere e alla notte ma che si offre cristianamente in olocausto per la salvezza e la redenzione dell’umanità, ed è qui rincorsa dalla lupa, associata alla lussuria e alla bassezza della concupiscenza e degli istinti carnali; entrambe si recano verso il giglio sormontato dalla croce, dunque verso la comprensione e il perdono della Madre Celeste. A sinistra, il mostro è relegato nelle tenebre e sconfitto (l’interpretazione dell’architrave è personale ma si ispira alla descrizione di Renzo Roiati).

 

 

Leggi anche: L’Albero del Piccioni e la storia del brigante.

TAG: ,