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L’anno che ci siamo lasciati alle spalle ha messo tutti alla prova, ognuno per un motivo differente. Siamo stati costretti a re-imparare il valore della pazienza, dell’attesa, ad apprezzare la quotidianità o, al contrario, ad esecrarla, portando una nuova consapevolezza sul modo di condurre le nostre vite. In questo scenario, l’unica cosa che si è mostrata imperitura è la parola, la facoltà di narrare, di condividere. La parola, infatti, è un mezzo potente: tramite essa si aizzano o si acquietano le folle, sollevando e abbassando i loro umori, si veicolano sentimenti, idee, scoperte; l’impiego della parola è l’unico modo che abbiamo di trasmettere ai posteri la sapienza e quanto di caro possediamo, che sia orale o sia scritta.

In quest’ottica, la terra marchigiana ha dato i natali a un grande poeta, che ha fatto della poetica del dire (che significa, in ultima analisi, essere) cardine della sua vita.

Antonio Santori: la magia del quotidiano

Antonio Santori nasce nel 1961 a Montréal, in Canada. Di origini marchigiane, torna a vivere a Civitanova, sul mare, dove si spegne ormai circa 13 anni fa.

Poeta e saggista, è stato anche docente di filosofia e redattore di riviste letterarie. Autore di quattro poemi (Infinita, Albergo a ore, Saltata e La linea alba) pubblicati tra 1990 e 2007, subisce una forte influenza della filosofia europea, da Nietzsche ad Heidegger, da Jung a Gadamer, ai quali ha dedicato anche studi e pubblicazioni.

Nella sua visione magica e alchemica del nome e del linguaggio, Santori recupera la forma del poema: si tratta di un dato non solo stilistico ma carico di significato. Tornare, alle soglie del Duemila, alla solennità del poema significa sganciarsi – in parte – dall’abbassamento poetico montaliano, creando un’epica del quotidiano che possiede propria profondità e solennità, concependo la letteratura, e soprattutto la poesia, come complessa visione e racconto lirico della realtà.

Eppure sono tue le parole
del prodigio iniziale.
Dalla tua voce ripeti
ancora la vita
che davanti a noi
si rinnova, l’assenza
di steccati sul confine.
Sono tue le pause
divine. Ma scandite
dai tanti corpi
che incontriamo, coperti
(come noi) da divise.

(Infinita)

La poetica di Santori

Quella di Santori è una poetica del nominare, del Verbo che si fa laicamente e misticamente carne, poiché l’atto della nominalizzazione è forse l’unico potere davvero magico che l’uomo possiede. In un mondo pavesiano, fatto di sangue e terra, di carne e passione, di buio e di luce, si innesca il virtuosismo linguistico che ricorda il Caproni della maturità, mai gratuito, anzi carico di significato e volto a traghettare il lettore, che è in realtà il “tu” interlocutore dell’opera, verso una soglia, un Oltre e un Altrove insondabili. Santori possiede, poi, uno stile evocativo che rimanda a Mario Luzi, trascendente e altamente simbolico, nel quale la parola è carica di un intrinseco valore rituale e taumaturgico, in una ricerca mai paga del mistero dell’eternità e dell’infinità che ci circonda.

La poesia diviene, quindi, una missione, un comando interiore, un dialogo e un necessario ascolto dell’Altro. Ma il tortuoso percorso del nome è pericoloso, a tratti ingannevole e a tratti luminoso e raggiante, a volte oscuro e pieno di nulla. Di indicibile. Di vuoto.

Il nominare nell’opera e nella vita di Santori si configura quindi come un atto necessario che guida nella ricerca costante di un senso universale delle cose, che fa avvicinare al mistero fondativo che l’uomo tenta – invano – di svelare e comprendere, muovendosi in quella meravigliosa gabbia che è l’infinito, una prigione senza limiti né confini:

Perché essere in questo luogo
è molto, e certo dire
dove siamo
è il nostro compito.
Oscurità e acque,
albe, ventre
dell’inferno, albero
di prua, inseguimento.
E, vedi, il corpo,
il nostro corpo soltanto
può dire
bianco, tellina, lontano,
vento, blues, inverno, ombra
delle cose, aldilà, Ascolta,
bacio.

La poesia di Santori si basa, in ultima analisi, sull’equazione a tre termini pensiero = parola = dono, in un discorso che intesse uno stretto dialogo con l’assenza, con un silenzio ineludibile e siderale che concede l’epifania della rivelazione collettiva, alla continua ricerca della parola che ponga il senso definitivo del nostro essere e spieghi la realtà che crediamo di conoscere, quanto mai complessa e bella, spietatamente bella.

Pensaci,
è un privilegio dire
odore delle case, mano
sopra la pelle, la prima volta.
Dire infinito
nelle erbe, è accaduto
è strano,
sorellina, madre,
stelle.
Dire
per sempre,
innevato, accanto,
spaventato,
sono
esistito.

Per questo mentre
vivo tutto mi sembra
innominato.

(La linea alba)

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