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I protagonisti del libro sono tre adolescenti. La loro storia viene raccontata da due di loro, Sara e Federico, entrambi legati a Ivan. Perché hai fatto la scelta inconsueta della “doppia prima persona”? Perché volevo che si sentisse la voce dei due personaggi co-protagonisti, e non quella del protagonista, cioè Ivan, che è l’unico a non parlare. Mi interessava molto che la sua personalità fosse colta da due punti di vista diversi, ognuno dei quali ne avrebbe tratto – e questo insieme al lettore – sfumature e interpretazioni diverse.

Il mondo dell’adolescenza viene presentato come qualcosa di sconosciuto e pericoloso. L’intermittenza e la superficialità dello show televisivo e dei social network sembrano aver condizionato una generazione di giovani. È proprio così? Sì, io ho visto questo. Per scrivere il romanzo ho trascorso interi periodi nelle scuole e in mezzo ai quindicenni. Non ho inventato nulla. Poi, non so, forse non mi interessa nemmeno dare giudizi. In fondo i veri temi del romanzo sono altri, e ben più abissali…

 Veniamo ai tuoi personaggi. Ho amato molto Sara perché l’ho trovata l’unica vera adolescente del gruppo, ingenua e ribelle allo stesso tempo. Ivan è un ragazzo che ha vissuto l’esperienza del carcere troppo presto, che irrimediabilmente segna un’esistenza, mentre Federico soffre dell’incombente figura materna che l’ha fatto sempre vivere in una sorta di gabbia dorata da cui è difficile scappare. La mia impressione coincide con il punto di vista dell’autore? Sì, io adoro Sara. È il personaggio che ho amato di più e quello in cui mi sono maggiormente immedesimato. Vecchiato, il regista che ne trarrà il film, mi ha detto subito: “Dimmi la verità, Alcide, Sara sei tu”. E aveva ragione. Sara sono io.

Un altro elemento di riflessione è il rapporto dei tre ragazzi con le rispettive madri. La figura materna è centrale nella loro formazione; sembra che il fallimento di una madre si rifletta immediatamente, spesso con gravi conseguenze, sulla vita del proprio figlio. È questo quello che hai voluto comunicare con questo libro? Mi interessava che questi ragazzi fossero cresciuti con figure genitoriali sofferenti, che avevano vissuto lutti e depressioni. Poi sì, è chiaro che i fallimenti dei nostri genitori si riflettano su di noi, ma anche le loro conquiste, anche i loro punti di luce.

Il rapporto tra i tre ragazzi è imperniato sull’attrazione di Sara e Federico nei confronti di Ivan, qualcosa che va oltre il mero desiderio sessuale. Quanto è stato difficile per te ricostruire le dinamiche relazionali ed emotive tra i protagonisti? E quanto hai attinto dal tuo vissuto personale? È stato difficile, molto. Ho lavorato per tre anni a questo libro. Dal mio vissuto ho attinto tanto, cosa che in passato, con gli altri libri, non avevo fatto. Scrivere questo libro mi ha fatto crescere, mi ha divertito e commosso, forse perché è il primo libro vero che ho scritto. Stavolta non ho giocato.

La maggior parte dei fatti narrati si svolgono a Roccafluvione, archetipo della provincia italiana. L’ambientazione è inamena e costellata da personaggi arcigni e disperati. Quindi, non c’è nulla da salvare in provincia? Mah… diciamo che esistono diverse categorie di radical chic convinte che la campagna, e certe province un po’ nascoste, siano un luogo di rinascita e di vita serena. La natura in realtà è il luogo della violenza originaria. Un milanese che venisse a Colonnella, dove sono cresciuto io, morirebbe dopo una settimana.

Il punto di incontro dei ragazzi è un maneggio, lo descrivi come un luogo laido, la stessa cavalla di Sara non è proprio un animale elegante, bensì brutta e diversa dagli altri animali. Inoltre, “Cavalluccio” è il nomignolo con cui Ivan chiama Federico perché il padre di quest’ultimo ha un allevamento di cavallucci marini. C’è un motivo particolare per cui hai voluto rendere centrale la presenza di questi animali? Sono vissuto in mezzo agli animali dall’età di tre anni. Galline, polli, conigli, mucche, maiali, cani, gatti, piccioni, papere, pesci. Sono cresciuto nella campagna abruzzese, dove gli animali vengono amati e rispettati tanto quanto gli uomini. La ragione è questa.

La tua scrittura è sollecita, attenta ai particolari, i dialoghi sono serrati. Durante la lettura ho immaginato spesso di vedere un film. Hai mai pensato di scrivere una sceneggiatura? Io sono cresciuto con la passione per il cinema, soprattutto per il cinema horror (e resta a tutt’oggi la mia passione più grande). Purtroppo, anzi, per fortuna, il cinema ha cambiato radicalmente il modo di scrivere e di concepire i libri, e oggi è impensabile scrivere un romanzo come lo si sarebbe scritto solo trent’anni fa. Mi interessa molto lavorare con i linguaggi mediali, raccontare i punti di vista più diversi rispetto a una stessa situazione, così come giocare con i tempi verbali e con le forme narrative. Da piccolo avevo una telecamera, e ho girato centinaia di cortometraggi; diciamo che adesso scrivo con la macchina da presa direttamente sui fogli.

Rimanendo all’aspetto cinematografico della narrazione, gli adulti della storia sono permeati da una grande ipocrisia, in linea con un certo conformismo provinciale. Nella parte iniziale del libro Federico cita un film di David Lynch, ho trovato grandi similitudini tra il tuo romanzo e i suoi film. È stato un tuo ispiratore? Lo è stato in passato. Il suo cinema mi piace molto, ma a volte si rischia di ricondurre a Lynch qualsiasi cosa che esondi dal piattume che ci circonda.

Gli adulti sembrano non ottemperare più al loro ruolo di “educatori” nei confronti dei più giovani. Nella realtà siamo già a questo punto di disgregazione, o pensi che la famiglia sia ancora la prima istituzione dove formare ed educare le persone? La famiglia non esiste. Ognuno si crea la famiglia che vuole. Come si può parlare ancora di famiglia? Cosa significa? Dove sono le famiglie? Ma stiamo scherzando?

La tv e internet hanno sostituito il ruolo genitoriale, sembrano soppiantare anche la Scuola. In qualche modo il tuo romanzo denuncia il cambiamento sociale in atto. Qualche adolescente ha letto il tuo libro, hai ricevuto dei pareri e impressioni da qualcuno di loro, che può rivedersi nella storia vissuta dai protagonisti del romanzo? Mi scrivono soprattutto adolescenti, soprattutto ragazzine, e la cosa mi riempie di felicità. Molte di loro si identificano in Sara, e, soprattutto, nessun adolescente ha mosso delle critiche al mondo che racconto. Lo riconoscono come reale, lo guardano con occhi aperti.

Il titolo del libro porta il nome di uno dei tuoi personaggi, Ivan. Il finale inaspettato lo coinvolge direttamente; ho cercato di immaginare una conclusione diversa ma non l’ho trovata. In questa vita non esiste nemesi. È una visione pessimistica della vita o una cruda realtà? È una cruda realtà. Nella vita non esiste alcuna nemesi, ma la vita senza nemesi di cui facciamo parte è immersa in qualcosa di ben più profondo e meraviglioso. Un cerchio dorato. Ma non è un tema che si può affrontare con Ivan il terribile, di questo mi sono occupato a lungo nei libri precedenti.

Da ultimo una curiosità. I tuoi personaggi fumano quasi tutti. Lo scambio e l’accensione di sigarette è una sorta di “intercalare letterario” nella narrazione o c’è una causa particolare per cui il fumo è un elemento centrale della storia? Non so, probabilmente perché sono un fumatore accanito io stesso. O forse perché a quindici anni si fuma molto. Quando racconto una storia, mi piace molto lavorare sui silenzi che si creano tra i personaggi. Mi piace il gesto di chi fuma, sono convinto che dia più bellezza alla scena raccontata. Fumare una sigaretta vuol dire molte cose: riflettere, stare da soli, fare un certo movimento con le dita, esprimere uno stato ansioso o comunque disagevole. Queste sono le ragioni per cui i miei ragazzi fumano molto.