Articolo
Testo articolo principale

Eleonora Cruciani, aka Le Piume del Colibrì è una trentenne ascolana che decide di seguire il suo sentire, rimboccarsi le maniche, non fermarsi di fronte al muro delle difficoltà che oggi i trentenni italiani vedono quotidianamente alzarsi davanti ai loro occhi e, forte della sua vocazione unita alla volontà che guida il suo fare, mette in piedi qui nel nostro territorio ad un atelier laboratorio dove da vita al suo brand di abiti, occupandosi personalmente di disegnare le collezioni, trovare tessuti e materiali, interfacciarsi con rappresentanti e fornitori, affrontare la parte commerciale, cucire, supervisionare la confezione, curare la comunicazione e l’immagine, e ne fa la sua vita. Siamo andati ad incontrarla nel suo piccolo showroom ascolano dove tra manichini, vecchi bauli e capi nuovi di zecche le abbiamo chiesto di raccontarci tutto questo è stato possibile.

Che cos’è “Le Piume del Colibrì”? “Temo sempre questa domanda. – risponde rapidamente mentre i suoi occhi brillano perché al di là di quello che sia “Le Piume del Colibrì” esiste. In realtà è “semplicemente” una grande idea: non sono una di quelle che voleva fare la stilista, io volevo disegnare. Le piume del colibrì è nato dall’esigenza di riversare il disegno in qualcosa in movimento. L’amore vero che nutro è per la matita, tutto quello che arrivo a vendere è perché prima prende forma su carta. Ho trovato il modo di trasformare l’amore. Fare i vestiti è infatti per me una grossa dichiarazione d’amore verso l’umanità, un vestito ti avvolge, ti abbraccia”.

Quando inizi questa avventura? “Guarda comincio ad interrogarmi su come poter fare il mio all’età di sei, sette anni, ed è lo stesso momento in cui conosco ed entro in empatia con il colibrì: capisco sin da allora che sarà il mio simbolo. Se non sbaglio – ormai sta diventando una storia tra mito e leggenda, tante le volte che la ripercorro e la racconto – è andata così. Alle elementari avevo una maestra che che girava il mondo e tra i suoi viaggi era stata in Africa. Premetto che da sempre sono attratta dalle cose molto piccole. Una delle sue storie in classe mi rapì. Siamo nella savana, improvvisamente scoppia un grandissimo incendio e tutti gli animali, allertandosi tra di loro con il passaparola iniziano a scappare in preda al panico. Nel caos, il leone vede un piccolo essere blu dirigersi incoscientemente – crede il re della foresta – verso l’incendio ed preoccupato richiama la sua attenzione esclamando a gran voce: “ma dove vai?” e il colibrì replica: “ho il becco pieno d’acqua”. Il leone continua: “Ma ti sei visto il becco? Hai visto la vastità dell’incendio? Ti brucerai le tue piume” e il colibrì senza esitare: “Io faccio la mia parte”. Rimasi incantata. Da qui si sviluppa in me il bisogno di trovare il modo di fare il mio, pur senza forza né mezzi oggettivi”.

Il tuo percorso? “Nel corso degli anni ho provato ad applicare il concetto di “fare il mio” in diversi settori. La costante il disegno, che ho sempre alimentato da autodidatta. Nel primo periodo universitario mi era balenato di fare il pittore, ma la sola idea di far vedere a qualcuno le mie opere mi creava un blocco enorme, come se mi sentissi nuda di fronte al mondo. Avevo la pulce nell’orecchio che non ci fossimo ancora, che non fosse l’artista quello che dovevo fare. Mi laureo in Cinema, altra strada tentata, già pensando che in un modo o nell’altro avrei fatto vestiti. Io il dubbio fatto persona conquista una certezza: non posso fare che questo fare che questo. Tra vittorie di concorsi e borse di studio conquistate mi trasferisco velocemente a Milano, frequento il corso professionale in fashion design all’istituto di moda Burgo per poi specializzarmi ulteriormente all’istituto Marangoni. Ottime scuole che però mancano di un aggancio con la vita reale: quello che ti dovrebbero insegnare e non ti insegnano è rapportarti con il mercato, come affrontare una produzione nel momento in cui apri un’azienda tua. Nel frattempo inizio a lavorare come stagista conto terzi: caffè vestiarista alle sfilate e pian piano conosco l’ambiente milanese e entro in contatto con Flora. E’ lei che ha fatto la differenza: mi ha incoraggiato ripetendomi: perché vuoi per forza lavorare con qualcuno? Mettiti da sola, lavora in proprio. Mi ha aperto questa possibilità, le ho creduto e ho cominciato a vedere come partire da zero, euro inclusi. Grazie all’angelo del mio business e ad, piccolo prestito ottenuto da una fondazione, necessario in quel momento ma che non suggerirei a qualcuno che si trovasse ad iniziare come me allora, Le Piume del Colibrì prende il via. Disegno sui post it sui retro degli scontrini e ritorna la passione per il piccolo”.

Difficoltà? “La principale per avviare seriamente “Le Piume del Colibrì” è stato l’insieme dei meccanismi che intervengo tra il disegno e la vendita del capo. Dover mettere in moto una macchina commerciale complessa e non avevo la più pallida idea di dove mettere le mani. A questo non posso prescindere di unire la crisi che stiamo attraversando da qualche anno a questa parte e per fino l’esigenza di dover creare un’identità aziendale diversa, aleatoria, che va oltre la mia persona per non scontare la poca credibilità data dalla mia giovane età e dal non aver nessuno alle spalle. Sicuramente quello che taglia le gambe a chi fa un lavoro come il mio è la manodopera straniera e l’imprenditoria sporca, che danneggiano il mercato degli artigiani”.

Entrando nel concreto? “Un capo semplice sulla produzione di un blocco da 100 pezzi, mi costa 18/20 euro di confezione. Potrei spendere tranquillamente 8 euro: questo significherebbe uscire di notte, caricare tutto il tessuto in macchina senza documento di trasporto, arrivare a pochi chilometri da casa, a Sant’Egidio, Appignano, Pagliare, Ancarano per citarne solo alcuni, entrare nel capannone, tirare un prezzo, seguire la produzione dei primi dieci capi, affinché capiscano il lavoro, andartene sempre senza dare nell’occhio, tornare dopo 2 giorni, rigorosamente di notte, troverai i capi pronti, ma saranno stati per terra, in mezzo ai bambini, allo sporco, e cuciti da cinesi per 12 ore ininterrotte che si alternano ad altre 12 ore di attività illecita che permette loro di abbassare così i prezzi di realizzazione. Attualmente io guadagno su ciascun capo 8/10 euro che puntualmente rinvesto in materiali e manodopera. All’inizio ho valutato anch’io questa “opzione”, ma sono entrata dentro un paio di laboratori cinesi, è sono scappata a gambe levate. Il mio capo costerebbe sul mercato il 45% in meno. Purtroppo in Italia si è innescato un meccanismo nel mercato dell’abbigliamento che genera confusione e danneggia i piccoli imprenditori: ci sono capi che in vetrina costano 200 euro ma che in realtà hanno valore di confezione di 3 euro. Il negoziante vuole le cose che costano meno per marginare di più. Mancano i controlli”.

Traguardi? “La Russia perché economicamente funziona. Come mai non mi hai parlato dei traguardi che hai varcato ma di quelli da raggiungere? Perché io da dentro vedo i difetti, ho la sensazione continua di dover arrivare. Il traguardo è sempre lontano, più m’avvicino e più s’allontana. Comunque riguardo ai traguardi raggiunti, ho delle persone che cuciono per me, una rete di rappresentanti e proprio qualche giorno fa mentre annotavo gli ordini di quello che mi cura ho realizzato: là fuori c’è qualcuno che vede le foto delle mie cose, decide che le vuole, le ordina e le paga pure. Avendo avuto prime esperienze da dipendente non pagata, faccio parte di quella categoria di statisti a vita e la prima volta che ho visto realizzata una cosa mia ho avuto reazione emotiva forte, ci ho lavorato su e adesso sono distaccata dagli oggetti che realizzo. Forte il senso di destabilizzazione intercorso tra pensare l’idea e vedere in giro per strada una persona che non conosco con un mio vestito indossato. L’evoluzione è stata vedere la materia usa con la persona, in movimento”.

Le risorse a cui hai attinto per giungere fin qua? “Umane, principalmente umane, morali, perché ti scontri con i colossi, con le porte in faccia, con i “non sei nessuno”. E le risorse interiori diventano fondamentali. Quelle economiche servono realmente nel momento in cui ti apri al mercato”.

Ascoli? Perché sei tornata, perché resti? “Per necessità interiore. Per quanto io ho odiato Ascoli, è il contesto ideale dove non conosco più nessuno e posso ricominciare da zero. E’ un po come quando fai pace con un amico con cui sei cresciuto insieme e poi ha litigato a morte. Passa il tempo e ricominciate ad annusarvi per poi tornare meglio di prima Avevo bisogno di un luogo che avesse la componente rassicurante di Ascoli di quando ero bambina, e poi per ripartire preferivo un posto piccolo, a misura. Dopo tanti anni trascorsi fuori Ascoli diventa una scelta. All’inizio è stata dura, adesso apprezzo cose che vent’anni fa detestavo di questo posto”.

Che significa essere stilisti oggi? Qual è il prezzo dell’indipendenza? “Io non faccio la stilista, nel senso contemporaneo del termine. Ho sempre preso le distanze da quello che oggi è un ruolo sociale, io faccio i vestiti: mi carico il tessuto, vado dalle mie operaie, cucio con loro, curo la parte commerciale, mi occupo dei rapporti con i rappresentanti. Tutto il mondo del fashion design, quello milanese per intenderci, è da me lontanissimo: lì io sono fuori posto. Il prezzo é alto, altissimo, è un continuo fare i conti con te stesso: faccio bene o faccio male, gliela faccio o non gliela faccio. E’ una lotta costante.Rinuncio quotidianamente a una grande parte della mia vita. Ho fatto di una passione un lavoro, e ho trovato nel mio lavoro il mio hobby, perché non ho tempo per coltivarne altri”.

Progetti per il futuro? “Aprire al pubblico il quartier generale de Le Piume del Colibrì. Uno spazio d’autonomia morale dove andare a educare il cliente e dove esporre creazioni che non sottostanno alle logiche di mercato di taglie, collezioni, stagionalità. Vorrei risistemare la parte superiore del capannone, dove attualmente nascono i miei capi, renderlo ospitale, far entrare il pubblico in contatto con le fasi produttive e solo in ultimo farlo approdare ai vestiti”.

Un grazie a? “Ahimè ci sta poco da ringraziare. Quando ho avuto l’idea nessuno era dalla mia. Ho avuto la fortuna di incontrare per caso sulla mia strada persone, che anche con piccoli gesti apparentemente trascurabili, in momenti non particolarmente rilevanti, hanno fatto la differenza. Ringrazio sinceramente tutti i piccoli colibrì, e sono tanti, tanti tantissimi, che con una forza minuscola hanno compiuto enormi atti di generosità nei miei confronti offrendomi un supporto pratico fondamentale”.

Per qualsiasi informazione sulla collezione Fall-Winter 2013 e sulla rete di distribuzione potete visitare sito e pagina Facebook.

{gallery}piume{/gallery}