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Non si commenta l’ultima lettera di un suicida, il quale non ha più diritto di replica. Inoltre, non esistono mai motivi specifici, in una persona che sta bene, per rinunciare alla vita. E, se esistessero motivi generali, ebbene: questi varrebbero per tutti.

Suicidio: l’ultima lettera è un’eredità

L’ultima lettera di un suicida è sempre un’eredità, che si può accettare o rifiutare, così com’è. O ignorare, come hanno fatto molti morti respiranti che si aggirano fra noi.  Io accetto l’eredità di Michele, disponendomi a fare l’unica cosa possibile: ascoltare il dolore che ha mosso la sua penna sul foglio. E capire il senso del disagio. L’accetto, compresa l’accusa che la lettera contiene, rivolta anche a me.

Ho sempre pensato che non ci si toglie la vita per la sofferenza psichica, bensì per la stanchezza dei giorni che sono davanti, quando ogni cosa è chiara ed ogni tentativo è stato fatto, inutilmente.

suicidio

Un suicida non è stato ucciso da nessun altro se non da se stesso. Ma ha avuto dei complici.

Suicidio: l’elemento insondabile

Nel suicidio esiste un elemento insondabile, che resta sconosciuto a tutti. Non è l’ultimo pensiero su cui dobbiamo concentrarci, ma su quelli delle settimane e mesi precedenti. Che sono, invece, intelligibili. E che rappresentano, magari, il corpo grosso ed immerso di quell’iceberg che è la sofferenza dei più. C’è il rischio che il fatto di cronaca, l’episodio singolo, lavorino da valvola di sfogo e facilitino la rimozione collettiva. Come, un dì, il sacrificio umano di uno alleviava l’angoscia di tutti. Per un po’.

Ora, possiamo dare diverse risposte all’evento.

La prima è la soluzione sanremese. Nel 1967, Tenco portò una bella canzone d’impegno, che venne valutata niente, mentre andò in finale “Io, tu e le rose”, un paffuto ritornello scacciapensieri che, forse, doveva scacciare anche il ricordo fresco della tragedia. Ma è il classico modo di reagire che adotta la vita quando è in difficoltà, di rifugiarsi nella spensieratezza, nell’effimero, nel futile.

Un’altra soluzione è quella di isolare l’appestato esistenziale, il depresso, il maldicente, il sempre-insoddisfatto. Spesso portatore del temibile morbo del pensiero critico, così inopportuno e pesante, specie dopo cena. Ma c’è anche la scelta faticosa di cercare di risolvere il problema. Ed è assurdo che, nell’unica epoca storica nella quale sarebbe davvero possibile risolvere tutti i problemi, cioè la nostra, un giovane venga a trovarsi nella condizione di togliersi la vita.

I complici

Un suicida non è stato ucciso da nessun altro se non da se stesso. Ma ha avuto dei complici.

La burocrazia: per istigazione allo sfinimento.

La pubblicità: per istigazione alla stupidità.

I media: per disinformazione dolosa e continuata.

La politica: per istigazione al disgusto.

Gli adulti: per istigazione all’aspettativa.

Ma tutte queste associazioni a delinquere non sono imputabili perché godono del privilegio della extraterritorialità. Sono diventate cittadelle fortificate, impermeabili al reale, ostili alla critica, indifferenti a tutto ciò che si svolga a cento metri dal loro ombelico.

Perciò, ragazzi, non fatelo mai.

Se vi prendono i brutti pensieri, cercate la compagnia di qualcuno che vi schiaffeggi con degli argomenti positivi, di un chirurgo dialettico che vi evacui il pus delle male convinzioni. O di un pedante che non lasci scampo alle autogiustificazioni e vi riporti nella valle verde del possibile.

Se pensate di avere buoni motivi per farla finita, state guardando dalla parte sbagliata.

Non fatelo, ragazzi. Non fatelo mai. È gloria di un attimo. E chi resta suole consolarsi in fretta, con un motivetto orecchiabile.

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