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Io vengo da una famiglia comunista. Comunista era mio padre e comunisti i suoi amici. I miei amici d’infanzia erano figli di comunisti. Il mio imprinting comunista si è perfezionato nelle piazze e tra le quattro mura, che è quel che conta. All’università diffondevo l’Unità ed ero collaborativo membro dell’Associazione Italia-Urss, dove per tre anni ho studiato il russo. Altroché, se ero comunista.

Però sono cresciuto in una cittadina fascista. Fatale, allora, che avessi dei compagni di scuola di estrema destra. Meno fatale, invece, che andassi con loro alle manifestazioni dei gruppi extraparlamentari, dove i littori e le bipenne erano in bella evidenza.

Papà, che aveva una reputazione, era perplesso: “Giancarlo, non so se è il caso”. Ma io ero troppo curioso, tant’è che, molti anni dopo, portai un mio amico di destra ad una delle prima apparizioni di Forza Nuova. Curiosità; pura curiosità.

Che male può fare un’idea?

Tuttavia, mio papà avrebbe dovuto preoccuparsi assai di più quando i miei compagni di scuola mi portavano a casa loro. Perché lì, tra le quattro mura, c’era la destra piccolo-borghese che sparava opinioni senza museruola. Sentirli, quei genitori, esprimere senza remore le loro idee sociali, fu per me un insegnamento impagabile. Capii che l’anima delle dittature è nel fumo rilassato della sigaretta del dopo pranzo, che si mescola alle notizie della tv e agli umori della cattiva digestione.

Insomma, tutto questo per dire che a me, quando si citano “sinistra” e “destra”, non mi si formano davanti agli occhi delle immagini, ma delle sculture. Io di quei termini so il significato e anche lo spessore. Ne so la materia. Ne so perfino l’odore.

Ma non vorrei fare un torto al “centro”.

Ecco, di quello non ho l’idea di una scultura, bensì di uno spazio libero tra le sculture, angoli vuoti dove si potrebbe posare di tutto, che so, da un’ombrelliera ad una balla di fieno ad un elefantino ad una melanzana. Niente sarebbe fuori posto. Uno spazio non definito dal suo contenuto ma dai suoi estremi. Il luogo del “né l’uno né l’altro”; l’indirizzo dove viene recapitata la posta con indirizzo inesistente; il vuoto che elabora tutto quello che ci metti e lo trasforma in nulla; il canalone senza fondo dove si smorza l’eco del silenzio; il lazzaretto coi lenzuoli sempre puliti dove vanno in disfacimento le utopie.

Il centro, che ha sempre governato, perché frequentato da gente pratica, in quanto, su quel terreno, non cresce una teoria neanche a concimarlo tutti i giorni.
Il centro, domicilio dell’assenza, l’unico legittimo destinatario dell’inflazionata espressione “ma de che stamo a parla’…”.

E ora?

Ora le sculture non ci sono più e sono rimasti solo i piedistalli. Il pieno di prima è stato sostituito da ologrammi che proiettano immagini del passato, commentate da voci bianche, che quel passato l’hanno studiato a fumetti.
E il povero centro non è che se la passi bene. E già perché adesso, maldefinito da estremi cotonosi che hanno la forma cangiante degli storni in volo, gli tocca fronteggiare la concorrenza sleale dei produttori di Nulla, che t’aprono un negozio ad ogni angolo.

Ora sento i commentatori, e gli analisti, e i politici di lungo corso polemizzare animatamente, ma tutti tesi nello sforzo unitario di dare sostanza agli ologrammi. Solerti costruttori di dighe di sabbia, li vedi con paletta e secchiello che rinforzano i bastioni merlati con parole d’ordine e slogan (qualcuno, a voler strafare, con i “valori”), nel tentativo di salvare il loro mondo dalla marea del Nuovo. Che non vedono, non vogliono e non capiscono.

E ora? Ora che la tv, da elettrodomestico di salotto che era, è diventata padrona dei salotti e li ha banalizzati mettendoli in piazza, ora quei discorsi tra le quattro mura mi mancano. Mi manca la veemenza dei rivoluzionari in bretelle e le flatulenze verbali dei reazionari in pantofole. Mi manca la diversità, mi mancano le idee, specie quelle sbagliate, mi mancano le spine dorsali, i toni rubri, la dignità, il “ne vale la pena”. L’innata avversione antropologica per l’avversario di pianerottolo, del quale avvertivi, oltre che l’aroma del soffritto, anche il puzzo delle convinzioni.

Mi mancano le ideologie, culle di idee; le utopie impossibili, culle del possibile; i modelli inconciliabili, culle delle riforme vere, che facevano dispiacere qualche cattivo.

E ora li senti, gli edificatori di barriere, i virtuosi della paletta e del secchiello, che parlano e parlano e cercano di ricondurre l’urto delle novità ad un qualche già-visto, che loro sappiano armeggiare. Per persuaderti che lo tsunami è solo una moda del momento e, non appena tutti saremo rinsaviti, torneremo alle nostre schermaglie di parole d’ordine, slogan e valori. Ma civilmente, senza farci male; coi nostri moschetti di bambù.

Io li ascolto e, a dire il vero, un po’ mi ci diverto. Ma curiosità… no, quella direi di no.
“…ed è facile prevedere che, su questa questione, assisteremo presto a un duro scontro parlamentare tra centro-sinistra e centro-destra…” (cit.)
Un duro scontro parlamentare. Tra centro-sinistra e centro-destra.
No, davvero… ma de che stamo a parla’?

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